Nino Piazza

Quel che tento di tradurvi è più misterioso, s’aggroviglia alle radici stesse dell’essere, alla sorgente impalpabile delle sensazioni.

(J. Gasquet, Cézanne)

La citazione  di Gasquet, riportata nell'ultimo, memorabile saggio sulla pittura scritto da Merleau-Ponty (1) nell'estate del 1960, è per me fondamento poetico –cuore, pensiero e slancio- di ogni avventurato tentativo della parola di fronte all'arte.
Con emozione e meraviglia, come quella volta che, d'improvviso, vidi il mare, eccomi davanti -così avvinto- ai quadri di Nino Piazza.
Le sue opere sono la contemplazione del mistero dell'essere. Ecco la cifra interpretativa della sua ricerca di senso. Senso che avvertiamo nel segno pregnante. Segno che rimanda ad uno sfondo da cui, a sua volta, ne risulta irradiato. Sfondo generatore di mondi; di visione di mondi.
Con forza e rara intensità, il tratto sinuoso di Piazza interpella -e ci rivela- la figura. Figura rivelata, vale a dire: mostrata e nascosta. Mostrata, attraverso l’inesauribile visione del pittore; nascosta, poiché il suo sguardo è già oltre la rappresentazione pittorica, oltre quella linea che, di nuovo, si fa segno che interroga, rimandando ad un vedere ulteriore. Di nuovo, senza sosta.
Nei suoi quadri c'è la testimonianza di un'interrogazione interminabile, che si ripropone di opera in opera: non saprebbe trovare sbocco in una soluzione e, tuttavia, consegue una conoscenza, avendo la proprietà di ottenere una conoscenza, quella del visibile.
La linea-figura (albero, arco sacro, donna od orizzonte -  non importa) è un segno che Piazza interroga, scava nelle sue remote viscere fino al tormento,  fino a quando non ne ricava una frattura, una crosta densa, colma, straripante.
Un segno così coinvolgente che, come Piazza, ci sentiamo avvolti, tutt'uno alla linea-segno-colore dell'essere di fronte al mondo: linea-segno del mistero, colore che riverbera profondità spirituale.
La materia cromatica di queste opere è un impasto ‘alchemico’ (2) da cui lievitano colori “mobili, cangianti, autogenerati, come luce emessa dal cristallo” (3).
Il nero, “pece oleosa” (4)  esalata da un mondo sommerso e primigenio, è l’unico ed oscuro abisso a cui tornare per ammirare il sorgere di un’alba nuova. Il nero è “l'amore della luce che nasce dal buio” (5).
Il blu evoca uno spazio siderale, genera profondità. Profondità pittorica che germoglia sul supporto. Profondità che suscita contemplazione. Nel blu di  Piazza non vediamo solo un colore; ammiriamo la dimensione del colore, “ quel luogo dove - nelle parole di Cézanne -  s’incontrano il nostro cervello e l’universo”.
L'oro, che talvolta emerge dal rosso (un rosso antico, un rosso che ricorda  lo sfondo parietale della Villa dei Misteri a Pompei), è l'oro della figura femminile, l’oro della Bellezza: bellezza da ricordare (l’oro delle icone, bagliori di Bisanzio), bellezza ancora da venire (l’oro che irradia in avanti).
Ecco i colori di Piazza: ci guardano come “sostanze immateriali visibili che si addensano e si espandono liberamente nel cosmo perché hanno in sé una vita propria, caratterizzata dalle qualità spirituali insite in ognuno di essi “ (6).
La visione dell'artista -le parole di Merleau-Ponty calzano perfettamente alle intenzioni di Piazza -  non è più uno sguardo su un ‘di fuori’, relazione meramente fisico/ottica con il mondo. Il mondo non è più davanti a lui per rappresentazione, è piuttosto il pittore che nasce nelle cose come per concentrazione e venuta a sé del visibile. E’ questa animazione interna, questo irraggiarsi del visibile che il pittore cerca sotto i nomi di colore, spazio profondità.
Allora il quadro ci mostra come le cose si fanno cose e il mondo, mondo: solo allora risveglia nella visione comune potenzialità dormienti, segreti di preesistenza, affinità spirituali.

(1) Merleau-Ponty M., L’Oeil et l’Esprit, Editions Gallimard, 1964 (L’Occhio e lo Spirito, Milano, 199, traduzione di Anna Sordini).

(2) ‘Alchimista’ è la parola rivelatrice che Claudio Parmiggiani attribuisce all’amico Nino Piazza nella testimonianza inclusa nel catalogo della mostra Zefiro, Tip. Benedettina, Parma, aprile 2000, pag 11.

(3) Così Gabriella Di Milia descrive i colori del “rapinoso ed estatico” K. Ciurlionis, in L’Estasi lituana, FMR, novembre 1983, N. 18, Franco Maria Ricci Editore.

(4) Parmiggiani, op. cit., pag. 11.

(5) Id., pag. 11.

(6) Goethe, Teoria dei colori.

di Luigi Lanzi

da “Malacoda”, Parma, anno XVI, n.89, marzo-aprile 2000.